In questi giorni sto seguendo con una buona dose di benevola invidia l’avanzata degli amici del Road to Rome 2021 lungo la Via Francigena, alla volta di Roma e poi della Puglia. E nel frattempo sto metabolizzando la mia esperienza di qualche settimana fa, quando ho percorso insieme a loro il tratto da Viverone a Fiorenzuola in qualità di Ambassador, in sella alla Poderosa.
C’è voluto un bel po’ per venirne a capo, per una duplice ragione.
La prima, per la pazzesca quantità di emozioni, suggestioni, stimoli, sorprese e incontri che hanno costellato il nostro viaggio attraverso al Pianura Padana, tanto che quei sei giorni mi sono sembrati un mese intero; e approfitto qui per ribadire una cosa che avevo già detto nei post precedenti: questo tratto di Via Francigena – a volte considerato meno interessante e anche un po’ noioso – nasconde invece dei tesori straordinari, che per chi vive al nord sono giusto a due passi da casa e che meritano di essere scoperti e apprezzati.
La seconda ragione è che mi ci è voluto un bel pezzo per riprendermi dalla fatica di questo viaggio. Non certo per la lunghezza (le tappe erano più che ragionevoli, al massimo di una sessantina di chilometri), ma per il caldo devastante che ha davvero tagliato le gambe non solo a me, ma anche a tutti i miei compagni di viaggio più giovani e più atletici. Le temperature, nella settimana prima di ferragosto, erano arrivate a oltrepassare i 40 gradi all’ombra… e comunque, di ombra non ce n’era mai.
Nel nostro piccolo gruppo di pedalatori, la stanchezza era una condizione costante. Una sensazione che aumentava con le ore del giorno e che si stratificava tappa dopo tappa, alimentata dal sole a picco e dal caldo soffocante che non dava tregua.
Eppure era tutto bellissimo, e ci divertivamo follemente. È questa la cosa che, ripensando “a mente fredda” ai giorni trascorsi lungo la Via Francigena, mi ha stupito di più. Nonostante la fatica, non c’è stato mai un momento di tensione, una risposta nervosa, una lite. Al contrario: le risate si sprecavano, le battute e gli scherzi erano un flusso continuo, gli spunti per cazzeggiare praticamente infiniti.
E continuando nelle mie riflessioni pensavo che forse c’è una parte troppo spesso ingiustamente trascurata nella narrazione dei cammini. Narrazione che, in genere, pone la fatica e lo sforzo come elementi eroici e purificatori: mezzi per scavare nel profondo di sé stessi, per imparare a superare difficoltà e sofferenze, per elevare corpo e spirito e ispirare pensieri profondi e illuminanti.
Ora, io non voglio negare che ci sia sicuramente anche tutto questo: in un cammino si impara a conoscersi meglio, a riflettere più profondamente sulle cose, ad andare in profondità e al di là della superficie, a comprendere (e, se si è furbi, a rispettare) i propri limiti. Ma c’è un elemento che a mio avviso non è abbastanza raccontato e celebrato, ed è lo straordinario potere della stanchezza (quella “sana”, che deriva da cose che ti piace fare) di tirare fuori il/la cretino/a che è in te. E, simmetricamente, il meraviglioso potere che ha la stupidera nel farti superare quei momenti in cui senti di aver grattato il fondo della tua riserva di energie.
Non so se riesco a spiegarmi, ma mettiamola così: è l’una e mezzo del pomeriggio, stai pedalando da ore sotto il sole tra campi di pomodori che odorano già di salsa da tanto è caldo, hai una fame omicida e mancano ancora parecchi km al pranzo, l’acqua nella borraccia è terminata, i tafani ti perseguitano e tu pensi che potresti svenire da un momento all’altro. In uno scenario del genere, personalmente a darmi la carica non è il pensiero “sarò più forte delle avversità” o “devo superare i miei limiti”, ma è il demenziale coro “quarantaquattro gatti” intonato a squarciagola nel bel mezzo della campagna insieme ai compagni di viaggio; è una cena in cui l’improbabile argomento centrale di discussione è “come riconoscere una gatta morta” e le risate si sentono per tutto il quartiere; è il gusto surreale di utilizzare un calice da vino (di plastica, vabbè) al posto della borraccia improvvisando improbabili degustazioni a una fontanella o immersi fino alle ginocchia nell’acqua di un guado; è inventarsi filmati pseudo promozionali in cui il livello di cretineria e di risate è tale da farti mancare il fiato (questo è un esempio tipico: durante la realizzazione stavamo letteralmente male dal ridere). Cose talmente stupide che puoi fare soltanto in uno stato di stanchezza profonda, quando non hai neppure le forze per far funzionare i tuoi freni inibitori.
Ecco, il cammino per me è anche questo: è la capacità di toglierti ogni sovrastruttura e di riportarti alle radici. Una fatica che ti costringe a mettere da parte complicazioni ed elucubrazioni e ti lascia solo l’elementare leggerezza di quando avevi sedici anni, ripulendoti il cervello e un po’ anche l’anima. Provàtelo, se pensate di essere anche voi, in fondo in fondo, sufficientemente stupidi da saper ancora essere felici senza un particolare motivo.
PS: Per chi se lo chiedesse, il nucleo di base dei miei compagni di avventura (a cui si aggiungevano poi, a geometria variabile, altri ciclisti per tappe più o meno lunghe) era così composto: Myra (tostissima social media manager, ma di fatto factotum, dell’Associazione Europea Vie Francigene; l’unica che percorrerà per intero il viaggio Road to Rome 2021 da Calais a Santa Maria di Leuca), Luca (responsabile per AEVF), Giulia (fotografa e videomaker ufficiale), Augusto (brasiliano, co-fondatore di Ciclo Wine e presenza costantemente allegra e positiva), Ilaria (blogger, insegnante di Pilates e molto altro), Sara (giovane ed entusiasta viaggiatrice di Movimento Lento) e l'”infiltrata” Consuelo (in passato mia compagna di viaggio lungo la Via Francisca del Lucomagno). Seguiteli, ne vale la pena!
