Spaparanzata a letto, al calduccio sotto una coperta, ascolto la pioggia che scroscia e penso che davvero il motto perfetto per tutti noi dovrebbe essere “Fà la cosa giusta”.
Perché confesso che sia ad Annita che a me dispiaceva molto abbreviare di un giorno e mezzo e di 150 km l’itinerario che avevamo programmato: sia per goderci ancora un po’ di vacanza vagabonda; sia perché l’ultima parte – da Treviso a Venezia – ci avrebbe portato sul percorso dell’Aida lungo lo spettacolare tracciato sul Sile, che già avevamo visto in parte un paio di anni fa; sia perché l’arrivo a Venezia sarebbe stato la conclusione perfetta, il completamento del “ferro di cavallo” ideale che avevamo disegnato con le nostre bici.
E anche perché, lo ammetto, a me i trasferimenti “bici in treno” in Italia mettono sempre una certa angoscia: incertezza sul fatto di riuscire a salire con la bici, stazioni scomodissime con infernali rampe di scale da salire e scendere con la bici stracarica, ritardi, coincidenze risicate.
Non ultimo, il fatto di non sapere MAI dove si trova la carrozza per le biciclette: “in testa o in coda al treno” è la risposta che ricevi normalmente. Grazie tante. Dire “in cima o in fondo” a un regionale che in genere è lungo come un convoglio della transiberiana, significa solo alimentare la tua preoccupazione. Perché sai che, nella stazioncina dove ti trovi, avrai solo un paio di minuti per individuare la carrozza giusta e issare la bici, i borsoni e te stessa sul vagone, superando gradoni di altezza tale che in altri contesti verrebbero catalogati EE (escursionisti esperti). Se ti posizioni al centro, pronta a tutto e attenta a individuare la tua carrozza all’arrivo del treno, hai la certezza di doverti poi dibattere per molte decine di metri tra plotoni di pendolari, studenti e varia umanità che non si preoccupa certo di facilitarti il passaggio, considerandoti un’ingombrante perdigiorno. Se invece scegli di scommettere il tutto per tutto e ti posizioni a uno dei due estremi della banchina, ti può anche andare bene; ma se ti va male, come spesso succede, la traversata longitudinale del marciapiede sopra descritta diventa un incubo infinito, e aumentano esponenzialmente le probabilità che tu riesca a perdere il treno pur essendo magari già lì da venti minuti, o che qualche parte del tutto (la bici, le borse o te stessa) si avvii mentre il resto rimane a terra.
Tutto questo per spiegare come la partenza da Venezia mi avrebbe molto rassicurato, con un solo treno diretto che ci avrebbe scodellate a casa, a Milano, riducendo al minimo le problematiche di salita e discesa.
Ma il bello dei viaggi sono soprattutto gli imprevisti, e la capacità di sapervisi adattare. Così, convinte dalle catastrofiche previsioni meteo (rivelatesi poi esattissime), ci siamo avviate prima dell’alba verso la stazione di Belluno rassegnate al delirante itinerario che avevo anticipato ieri: 4 treni e 3 cambi, di cui uno con soli 7 minuti per la coincidenza, sul tracciato: Belluno-Montebelluna; Montebelluna-Padova; Padova-Verona; Verona-Milano.

Beh, roba da non credersi, ma è andato tutto molto più liscio del previsto. Intanto perché le stazioni di Padova e Verona sono attrezzate con ascensori che ti portano ai binari e ti evitano fatiche mostruose su e giù dai sottopassi. Poi perché i regionali in Veneto (e forse anche altrove?) sono nuovi, superfighi, con uno scivolino ad altezza marciapiede per caricare la bici senza problemi e con dei comodi ganci per parcheggiare il mezzo; su uno dei treni c’era addirittura la presa per la ricarica delle ebike. Poi perché siamo arrivate sempre in orario per le coincidenze.

Una magia che si è interrotta solo nell’ultima tratta, gestita – guarda un po’ – da Trenord. Ressa per salire e ammassare alla bell’e meglio in uno sgabuzzino 12 (dodici!) bici con relativi borsoni (alla faccia di chi dice che è un servizio per cui non c’è molta richiesta e i cicloturisti sono una minoranza che non merita attenzione); vagoni scomodi e sporchi e mal tenuti; una bella mezz’ora di ritardo accumulato all’arrivo. Io davvero non ne faccio una questione di principio, ma in un mondo – anche ferroviario – che va avanti a e punta a migliorarsi, l’anomalia di Trenord è qualcosa a cui non mi rassegno e che rischia (non parlo solo del trasporto bici, ovviamente) di essere un devastante collo di bottiglia per Milano e tutta la Lombardia.

Comunque, tornando a noi: ci è andata davvero bene e siamo riuscite a entrare in casa Giusto dieci minuti prima che di scatenasse un vero inferno di acqua e vento. Così, come dicevo all’inizio, “fare la cosa giusta” dando retta al buonsenso e alle previsioni meteo si è rivelata la scelta migliore, senza incaponirsi a completare in ogni caso il programma iniziale anche a costo di non goderselo per niente.
In una mattina di pioggia e freddo come questa, starsene accucciati con una tazza di caffè in mano a guardare fuori dai vetri è un autentico piacere; e vi confesso che il piacere aumenta di parecchio se penso che a quest’ora potrei, invece, essere pigiare sui pedali senza vedere niente intorno a me e con un rivoletto di acqua gelata giù per il copino.
Ci saranno altri momenti, più adatti, per riprendere l’itinerario interrotto e per inventarsene di nuovi. E per goderseli al meglio.