Sapete cos’è l’enrosadira? È la parola ladina che descrive quello straordinario momento del tramonto in cui le rocce delle Dolomiti si accendono, letteralmente, di un colore rosa intenso.
Non succede sempre: servono giornate limpidissime e prive di nuvole, e un punto di osservazione privilegiato; è quello che è successo ieri sera, in questo mio weekend mordi-e-fuggi in Val Gardena.
Niente lunghi giri in bici, per questa volta, e neanche grandi camminate (da ormai due settimane sono perseguitata da una stupida tallonite), ma tanti panorami che ogni volta, nonostante li conosca bene, riescono sempre a sorprendermi ed emozionarmi.
E poi ci sono le persone, e le loro storie. Come quella dei proprietari dell’albergo di Selva di Val Gardena dove mi trovo (Hotel Tyrol, segnatevelo se volete regalarvi una super-coccola): la sorridente, simpatica e calorosa Bibiana, discendente della famiglia di albergatori che nel 1966 fondò il Tyrol, e suo marito Maurizio, toscano della Val d’Orcia, arrivato qui per la prima volta nel 1989 come ospite dell’albergo, per una settimana bianca destinata a lasciare il segno.

Una coppia splendidamente assortita e capace di farsi sentire immediatamente tutto il calore di casa: che è poi quello che, per quanto mi riguarda, è davvero il massimo che puoi chiedere a un albergo (questo, poi, ha anche un ristorante coi fiocchi, una bella spa con piscina e soprattutto una baita tra boschi e pascoli, a un’ora di cammino dal paese, dove si organizzano picnic memorabili).
Oppure c’è la storia di Cristina, la cui famiglia è legata a doppio filo (anzi, a corda doppia) con la cima più caratteristica di questa zona, il Sassolungo. Molto vicino alla vetta, in una sella tra le rocce che affaccia da un lato sulla Val Gardena e dall’altro sull’Alpe di Siusi, a 2685 metri di quota si trova il rifugio Toni Demetz. Un rifugio “vecchio stile”, con le pareti in legno, le panche, le pareti coperte di vecchie foto e memorabilia e profumi appetitosi che escono dalla cucina. Toni Demetz era lo zio di Cristina, ed era, come suo padre e buona parte della famiglia, una guida alpina. Nel 1952 (aveva 20 anni) stava portando due clienti sul Sassolungo quando, proprio sulla cima, furono colpiti in pieno da un fulmine. Il primo ad accorrere per i soccorsi fu Giuani Demetz, il padre di Toni, che trovò il figlio morto insieme a un altro alpinista; si accorse però che il terzo del gruppo respirava ancora, se lo caricò sulle spalle e lo portò in salvo, risalendo poi in seguito per recuperare gli altri due corpi.

Questo atto di eroismo e umanità gli fruttò un riconoscimento ufficiale, quello del “Gran Ordine del Cardo” da parte delle autorità. Che si sentirono rispondere da Demetz che sì, l’onorificenza era una bella cosa, ma quello che davvero sarebbe stato bello era costruire un rifugio nei pressi della vetta del Sassolungo in modo che tragedie del genere non avessero a ripetersi. Detto, fatto: in pochi mesi gli fu dato il permesso di costruire un piccolo rifugio proprio sulla forcella del Sassolungo, che venne ovviamente intitolato al figlio Toni.

Il rifugio ora è stato ricostruito e ampliato ed è gestito da Enrico, figlio di Giuani e fratello di Toni, che passa qui tutte le sue estati e che è una fonte di straordinari racconti da cui filtra un amore assoluto e totale per la montagna e per la “missione” di guida alpina: racconti che potresti ascoltare per ore, senza stancarti mai.
Un capitolo a parte merita anche la salita in questo luogo magico. Ci si può arrivare, in modo più “atletico”, attraverso un sentiero pietroso che sale dal Passo Sella coprendo i circa 600 metri di dislivello (al rifugio mi hanno detto “un’oretta, un’oretta e mezza” ma temo sia un’informazione da prendere con le pinze, almeno per i miei standard).

L’alternativa è quella di salire attraverso il più incredibile impianto di risalita che abbia mai visto: immaginate un’ovovia, poi sostituite agli ovetti delle piccolissime scatole di sardine. In pratica, si sale a due a due strizzandosi in parallelepipedi larghi quanto una persona: praticamente dei minuscoli ascensori. E il bello è che l’impianto – che definire datato è decisamente riduttivo – procede a velocità piuttosto sostenuta e non si sogna minimamente di rallentare una volta in stazione, per facilitare la salita e la discesa dei passeggeri. Con il risultato che le operazioni vengono condotte da due robusti e decisi inservienti che al momento giusto afferrano al volo la scatoletta, ne aprono la porta (ovviamente a mano, attraverso un maniglione), ti acchiappano per un braccio e con una mezza piroetta ti catapultano a bordo, ripetendo poi l’operazione con il tuo malcapitato compagno di viaggio. Il tutto con una specie di “avanti veloce” in una manciata di secondi, quelli che il diabolico marchingegno mette a disposizione nel suo passaggio attraverso la stazione. E il tutto, ovviamente, ripetuto all’arrivo, con difficoltà anche maggiori (ti devi sparare fuori dalla cabina attaccandoti alle braccia che ti vengono tese dall’esterno, iniziando a freneticamente a muovere i piedi come Wile Coyote per minimizzare l’impatto con il terreno). Intendiamoci, tutte cose che persone agili e coordinate svolgono in assoluta scioltezza. Per quelle un po’ goffe e imbranate, come me… beh, è tutto un altro discorso.
Comunque sono qui, viva e incolume, a godermi questo sole ancora tiepido e queste montagne. Se c’è un buon modo per entrare nell’autunno, è sicuramente questo.
