Le cose che non sappiamo della Sicilia, noi che siciliani non siamo, sono infinite. Basti dire, per esempio, che da 55 anni sbagliamo nome e chiamiamo Bèlice quello che in realtà è il Belìce: un’ampia vallata che nel 1968 si ritrovò in pochi minuti completamente distrutta da un terremoto devastante che cancellò interi paesi.

Il percorso della Sicily Divide, itinerario ciclistico che attraversa la regione da Trapani a Catania e di cui ieri abbiamo percorso una tappa, passa anche di qui; e trasforma una semplice pedalata in un’esperienza emozionante (grazie quindi alla Regione Siciliana e a Terre di Mezzo Editore per questo press tour davvero memorabile)
L’intera Sicily Divide, del resto, è qualcosa di molto particolare. Ideata nel 2020 da Giovanni Guarnieri, nel giro di pochissimo tempo è diventata una sorta di tappa obbligata per i cicloviaggiatori più tosti e avventurosi, tanto da registrare lo scorso anno ben 6000 presenze. Già, perché attraversare la Sicilia nel suo interno da parte a parte, lungo 430 km e oltre 8000 metri di dislivello su stradine sterrate e piccole provinciali deserte in località lontane da ogni richiamo turistico, è qualcosa di ben diverso dal percorrere una normale ciclovia. Questo non è un normale giro di cicloturismo: è un viaggio a pedali che richiede fiato, gambe, un briciolo di voglia di avventura e di capacità di adattarsi a imprevisti e difficoltà. Ma la ricompensa è alta, anche solo per quello che ho potuto vedere percorrendone una sola tappa, quella che va da Gibellina a Sambuca di Sicilia.
Torniamo quindi alla valle del Belice. Che era, fino alla notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968, un posto come tanti altri nell’interno della Sicilia: una campagna di colline arse dal sole e punteggiata di paesi ricchi di storia, di tradizioni e di ben poco altro. La Sicilia non è mai stata un esempio eccellente di equa distribuzione del reddito, tanto più mezzo secolo fa; e borghi come Gibellina, Salaparuta, Poggioreale, Montevago erano un denso agglomerato di poverissime casette in tufo tirate su alla bell’e meglio dove viveva la maggior parte della popolazione, intervallate però ogni tanto da sontuose cattedrali, palazzetti nobiliari, ville di campagna. Bastarono poche, violentissime scosse per trasformare questo panorama in uno scenario apocalittico. E ci volle poi una spropositata quantità di anni per consentire a questi luoghi di iniziare a rimarginare, almeno in parte, le ferite del disastro: le tendopoli e le baraccopoli erette come soluzioni di emergenza rimasero tali per anni; lo spopolamento dei luoghi – già iniziato in periodi precedenti – si trasformò in una sorta di esodo; burocrazia, corruzione e sprechi furono oggetto di ripetute denunce: tanto che, a più di mezzo secolo di distanza, si parla tuttora di “ricostruzione incompleta”.

E torniamo al fatto che, di questi luoghi, noi che veniamo da altre regioni conosciamo ben poco. La lunga giornata in bicicletta, attraverso bellissime e semideserte stradine provinciali, è anche un itinerario che – per come l’ho vissuto io, perlomeno – mostra come si siano effettuate a suo tempo scelte urbanistiche quantomeno discutibili, come la sciatteria e la trascuratezza abbiano creato danni paragonabili a quelli del sisma e come però, in anni più recenti, ci sia stato anche uno sforzo intenso e prezioso di rileggere tutto questo, di dare un senso alla memoria, di rendere le macerie un monito e un insegnamento e di ripartire facendo leva su eccellenze e competenze.

Il primo, più vistoso e più straordinario esempio è quello di Gibellina. Di fronte alla distruzione totale, la scelta iniziale fu quella di ricostruire ex novo il paese a una quindicina di km (distanza per nulla trascurabile, tanto più con questo tipo di strade) seguendo un approccio che, con un eufemismo, potremmo definire come non molto rispettoso dello stile di vita e delle tradizioni locali. Una superficie dieci volte più grande di quella del vecchio centro, scuole, chiese modernissime, edifici pubblici, villette di impronta quasi anglosassone; ma niente vicoli, niente piazze, solo larghe vie impersonali prive di qualsiasi tipo di legami con il passato: un luogo in cui per gli abitanti (in prevalenza anziani) fu quasi impossibile riconoscersi e ritrovarsi. E a nulla servì puntare sull’arte contemporanea, invitando grandi artisti (del calibro di Pietro Consagra, Emilio Isgrò, Arnaldo Pomodoro) ad arricchire la cittadina con le proprie opere: evidentemente mancava qualcosa di più essenziale, un genius loci che è molto difficile, se non impossibile, ricostruire a tavolino. Gli abitanti di Gibellina, che erano circa 6000 al tempo del terremoto, navigano oggi intorno alle 4000 unità, e l’intera Gibellina Nuova, con le sue opere che dovrebbero renderla un grande museo a cielo aperto, appare più che altro come una surreale città fantasma, dai grandi spazi semideserti e semiabbandonati.
In questo scenario si innesta però il grandissimo genio di Alberto Burri: anche lui, come gli altri artisti, era stato portato a Gibellina Nuova per realizzare una propria opera. Ma lo disse subito: in quegli spazi, lui, non riusciva a percepire alcuna emozione, non trovava nessuno stimolo. Chiese quindi di essere portato a visitare le rovine del vecchio paese, rimaste pressoché intoccate dopo il terremoto. E qui invece l’ispirazione arrivò, come raccontò lo stesso Burri: “rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento”.
Il concetto di cretto (termine che significa crepa, spaccatura, fenditura di un muro) in realtà non era nuovo nell’opera di Burri, che già in anni precedenti aveva realizzato delle opere basate proprio sul concetto di incisioni e screpolature delle superfici; ma si trattava sempre di lavori di dimensioni contenute. In questo caso invece il risultato finale, visibile a molti chilometri di distanza, è un’immensa colata di cemento bianco di oltre 80 000 metri quadrati, suddivisa in 122 blocchi irregolari da ampie crepe a riprodurre le vie del paese scomparso. C’è qualcosa di profondamente emozionante nell’inoltrarsi tra le pieghe di questo sterminato monumento funebre, nel camminare nella solitudine e nel silenzio (turisti, qui se ne vedono ben pochi) di questi solchi nel cemento, in cui la luce e l’ombra disegnano imprevedibili ed eleganti geometrie. È un’esperienza forte, è una percezione di bellezza assoluta, è una memoria storica fondata sul dolore. Difficile spiegare a parole: l’unica è venire qui al Cretto di Burri a Gibellina Vecchia, in bici o con qualche altro mezzo, sfidando la distanza, la scomodità e la vergognosa scarsità di segnalazioni. Posso solo assicurare che ne vale la pena. (C’è gente che, all’interno del Cretto, ci va anche in bicicletta, ottenendo immagini molto “instagrammabili”: voi fate come vi pare, io però non me la sono sentita. In un luogo del genere, con una storia del genere, per come la vedo io ci si entra solo in punta di piedi, e in silenzio).

Ma la pedalata nei luoghi del terremoto prosegue, seguendo le tracce della Sicily Divide, e offre altre declinazioni nel modo di reagire e interpretare l’evento, tutte accomunate dall’esistenza per ciascun paese di una versione “vecchia” e “nuova”: i “paesi nuovi” si somigliano abbastanza e sono invariabilmente dei brutti ammassi di casette a due piani, tirate su senza alcun garbo e senza la minima attenzione all’estetica, in genere sovrastate da una gigantesca inquietante chiesona in cemento dalle linee moderne e inutilmente aggressive. I “paesi vecchi” invece, sono costituiti solo dalle rovine del vecchio borgo e mostrano tipologie e livelli di intervento molto diversi, anche se a separarli l’uno dall’altro sono una manciata di chilometri.
C’è per esempio Salaparuta, i cui ruderi lasciati incustoditi affiancano la piccola strada provinciale, abbandonati e sommersi dalla vegetazione, con qualche incongruo cartello a segnalare punti di riferimento cittadino ormai irriconoscibili.

Oppure, poco più in là, c’è Poggioreale, che era evidentemente un agglomerato di maggiori dimensioni: qui la scelta (se di scelta si può parlare) è stata quella non fare assolutamente nulla, ma di limitarsi a transennare l’intero ex-paese, vietandone l’accesso e abbandonando a se stessi le macerie delle case, della scuola, dei negozi, così come i resti di belle chiese e di eleganti palazzetti che si scorgono al di là del reticolato, rimasti più o meno in piedi. Una città fantasma, avvolta nel silenzio, in cui quel poco che riesci a scorgere sono istantanee congelate nel tempo a quella notte del 1968.
E poi c’è Montevago, l’unico di questi centri abbandonati a trovarsi in una zona pianeggiante, che invece negli ultimi anni ha scelto una direzione opposta e ha creato un progetto dal titolo “Percorsi Visivi”: nella grande grande distesa di macerie, un’intera “via” di case dai tetti crollati e dai muri diroccati è stata resa una sorta di museo esperienziale: alcune stanze, visibili dalle brecce dei muri, sono state arredate con oggetti di uso quotidiano; altre sono abitate da murales evocativi e di grande impatto; alcune porte e finestre sono dipinte a colori vivaci. Anche in questo caso, l’emozione che si coglie è forte e immediata. Emozione che si amplifica ulteriormente quando, a pochissima distanza, si arriva alle rovine della vecchia Chiesa Madre, la “cattedrale” di Montevago, pressoché completamente distrutta ma ancora percepibile nella sua maestosità, in cui guardando le colonne, le arcate, le absidi semi crollate devi ricordare a te stessa che non stai ammirando un reperto archeologico, ma la testimonianza di una vicenda recente.

L’ho tirata un po’ lunga, ma secondo me ne valeva la pena. Sia per cercare di trasmettere la straordinaria suggestione di questi luoghi, sia per mostrare come ci sia in atto – almeno in certi casi – uno sforzo (anche creativo) di valorizzare queste testimonianze e di dare nuova vita alla zona. Chissà, forse in questo anche il cicloturismo può contribuire a dare una mano.
Tanto più che, anche dal punto di vista dell’ospitalità, ci sono esempi straordinari: vicino a Montevago, per esempio, c’è l’azienda agricola La Chiusa creata da Stefano Ientile, architetto originario della zona che ha deciso di riprendere in mano il fondo di famiglia creando un’azienda agricola bio, dove produce vini naturali e olio di oliva; un posto di grandissimo gusto e bellezza, ma soprattutto un progetto di valorizzazione del territorio portato avanti con una competenza e una passione davvero fuori dal comune.
Insomma, per quello che ho visto fino a qui la Sicilia ha davvero tanto di tutto: di bellezza, di problemi e difficoltà, ma anche di capitale umano, di persone capaci di creare progetti e opportunità future. Inutile aggiungere che tutto questo lo si coglie più facilmente nel modo in cui abbiamo viaggiato in questi giorni: a ritmo lento (in bici o, come gli altri gruppi del press tour, a piedi), uscendo dagli itinerari e dalle destinazioni più famose e frequentate, ascoltando le persone e le loro storie.

Un’ultima nota, di tipo tecnico: Sambuca di Sicilia, dove abbiamo pernottato, è anch’essa una cittadina deliziosa (tanto da essere stata nominata tra i Borghi più Belli d’Italia). Se però ci arrivate in bici non abbassate la guardia quando vedete la grande rotonda con l’indicazione del paese, credendovi arrivati. Perché da lì, per arrivare al belvedere del centro storico, c’è una via che sembra non finire mai; e ovviamente non c’è neanche da chiederlo: è tutta in salita, e non parlo di salitelle qualsiasi. Io vi ho avvertito, così poi non vi ho sulla coscienza.
(PS: foto di apertura, a Montevago Vecchia, di Gianluca Ricceri)
