Lo scrivevo su un post di qualche tempo fa, di quel detto – diffuso credo un po’ in tutto il mondo – che con minime sfumature dice: “Quando l’uomo fa progetti, Dio ride”. E in effetti, questa vicenda del coronavirus e di tutte le conseguenze che sta portando con sé sembra fatta apposta per confermarlo.
Nel mio piccolo – e incrociando tutte le dita a disposizione – posso dire che sono in una situazione molto fortunata: stiamo tutti bene, ho una casa confortevole (chiusa dentro i ponteggi dei lavori in corso, ma non si può avere tutto), posso lavorare in remoto senza particolari problemi. Insomma, non posso in coscienza lamentarmi troppo.
Però questa – peraltro sacrosanta – reclusione mi pesa molto, inutile negarlo. Mi pesa non poter uscire, mi pesa aver dovuto cancellare la Mopo (il viaggio in bici tra Germania, Austria, Italia e Croazia che avrebbe dovuto iniziare il 31 maggio) e forse quello che mi pesa di più è non riuscire neppure a programmarlo, un nuovo viaggio: un po’ per l’incertezza sul futuro e un po’ anche per scaramanzia. L’unica cosa che so è che resterò in Italia, che mi sembra la scelta più giusta e opportuna (e non è certo un sacrificio…).
Ma se da un lato “non ho la testa” per pensare a nuovi itinerari, dall’altro questo stop forzato mi ha portato a riflettere su un bel po’ di cose.
Perché un viaggio, secondo me, non incomincia quando esci dalla porta di casa. Inizia molto prima, quando nasce nella tua testa l’idea di un altrove, la curiosità per un nome, il desiderio di un’esperienza. L’itinerario, tutto sommato, è solo una delle componenti.
Quello che mi ha fatto riflettere è stata soprattutto una sensazione di nostalgia che si stava insinuando da tempo, anche prima del lockdown.
Non nostalgia per una persona o per un posto, ma per una sensazione, un’atmosfera: quella provata nel 2017, al nostro primo viaggio (mio e di Annita) lungo la Via Francigena.
Eravamo partite senza esperienza, senza allenamento, senza il minimo programma e senza neanche la più pallida idea di ciò che sarebbe successo: dove avremmo dormito la notte successiva, come sarebbe stata la strada, fino a che punto saremmo riuscite ad arrivare.
Ed è stata un’esperienza unica, straordinaria e illuminante. Una sensazione di leggerezza e di libertà assolute, il piacere della continua scoperta, la sorpresa di ritrovarsi molto più fresche e duttili di quanto siamo abituate a considerarci.
(Piccolo spot pubblicitario: il diario del percorso è raccolto in un libro – “Se ce l’ho fatta io” – che a tre anni dall’uscita continua a essere presente nelle classifiche di vendita. Se non lo avete ancora letto, mi permetto di consigliarvelo perché racconta esattamente le sensazioni di cui sto parlando).
Ecco, quella sensazione piano piano, nei viaggi successivi, era andata un po’ perdendosi. Sono state esperienze bellissime, intendiamoci: piene di divertimento, di amici, di posti e di risate.
Ma l’emozione delle origini, quella che ti solletica e ti mette anche un pochino di irrazionale paura, quella non c’era più.
Il motivo, a pensarci bene, è abbastanza chiaro ed è legato a un concetto sbagliato di “fare meglio”.
Pensi di fare meglio, nel viaggio successivo, programmando più minuziosamente le tappe; circondandoti di persone (a cui vuoi bene, di cui ti fidi) che ti facciano sentire più sicura e protetta; studiando il percorso nel dettaglio; e a quel punto, prenotando le sistemazioni per la notte, in modo da non avere sorprese.
…eccolo lì, l’inghippo: “in modo da non avere sorprese”. In altri termini, in modo che tutto fili liscio e senza intoppi.
Eppure, lo sappiamo benissimo che le cose che si ricordano di più, gli episodi che si raccontano più volentieri, gli aneddoti si cui a distanza di anni ancora si ride a crepapelle, non sono quelle volte in cui tutto è andato secondo i programmi, ma esattamente il contrario.
L’imprevisto, l’intoppo, il granello nell’ingranaggio che fa deviare dai programmi… è lì che si annida l’emozione e la meraviglia, anche (o forse soprattutto) quando le cose si sviluppano diversamente da come avevamo pensato.
Anche se il tutto è meno rassicurante e può portare a qualche disagio: ma è la tassa da pagare, non si scappa. In qualche modo devi accettare di metterti a nudo, per riscoprire completamente chi sei.
L’unica cosa che ho capito, quindi, è che nel mio prossimo viaggio vorrei proprio “tornare alle origini”: partire senza un programma preciso, senza nessuna prenotazione, senza obiettivi definiti, prendendola come viene.
E ho anche capito che, per una cosa del genere, bisogna essere in pochi: due, tre persone al massimo. Perché una stanzetta dove dormire, in un modo o nell’altro, la si trova; tre o quattro camere, è tutto un altro discorso. Un passaggio sul pianale di un camion lo si può scroccare, ma non quando si deve caricare un gruppone. Anche attaccare bottone con qualcuno del posto, facendosi raccontare storie o suggerire deviazioni, è molto più facile se si è da soli o in pochissimi: quando si è in gruppo ci si diverte, ma in qualche modo si finisce anche con l’isolarsi in parte rispetto a ciò che ci circonda.
Insomma: non so ancora quando potrò partire, e non so neppure bene che direzione prenderò, ma una cosa l’ho capita, in questo periodo di forzata immobilità. Non ci sarà nulla di prenotato, ben poco di definito, e saremo pochi, pochissimi. E molto pronti a prendere il meglio da ciò che viene, magari molto diverso da ciò che si era previsto