Continuano i racconti “in differita” delle mie (dis)avventure in barca a vela. Con una prima rassegna dei miei compagni di navigazione.
Giorno 3 di navigazione
Da qui in avanti cercherò di tagliare corto sui dettagli delle nostre giornate, perché mi rendo conto che una vacanza di questo tipo è tanto divertente per chi la vive quanto noiosa per chi se la sente raccontare: sole, vento, baie remote dall’acqua cristallina, meravigliosi bagni e relax cullati dallo sciabordio delle onde sullo scafo.
Solo poche note, quindi, sui fatti salienti di oggi: finalmente a vela, ci siamo spostati fino all’isolotto deserto di Alinnia scortati per parecchi minuti da un gruppo di delfini, ormeggiando poi per la notte (non senza qualche complessa e involontariamente acrobatica manovra di “cime a terra”) in quella che è stata soprannominata come “la baia dei pezzenti” a causa della quantità di mega-yacht da Paperoni che stazionano in queste acque. Qualcuno di noi sostiene di aver visto addirittura una barca battente bandiera della famiglia reale britannica.
Comunque l’isola è straordinariamente suggestiva: completamente disabitata, ospita alcune casematte tedesche della seconda guerra mondiale e poi, nell’angolo più remoto, una microscopica chiesetta semidiroccata affacciata sull’acqua, al cui interno comunque ancora si onorano alcuni ritratti sacri. Soprattutto verso sera, uno scenario quasi irreale.
L’equipaggio della barca – a parte me, che a seguito di una serie di cambi di programma, sono di fatto una new entry – è straordinariamente affiatato: in parte perché composto da parenti o amici tanto stretti da esserlo diventati “de facto”, in parte per la consuetudine che si crea dopo decenni di viaggi in barca insieme, in parte per una condivisione di fondo di gusti, valori e propensioni da “puristi” del mare.
La piccola rassegna inizia dai “ragazzi”: i due figli di Paolo, Alessandro e Chiara, e il marito di quest’ultima, Gideon. Trentenni allegri, svegli e affermati nelle rispettive professioni, con un’esperienza di vita e di studi qua e là per il mondo che li porta a conversare passando con disinvoltura dall’italiano all’inglese e viceversa. Persone sufficientemente mature e sicure di sé da dare la sensazione di aver compiuto il giro di boa generazionale: quello in cui si passa dal genitore che pensa con orgoglio “mio figlio/a è già capace di cavarsela”, al figlio che con altrettanto orgoglio e in quella stessa circostanza pensa “mio padre/madre è ancora capace di cavarsela”. Gideon, poveretto, in tutto questo appare un po’ sperduto: non ha idea di come si vada in barca a vela e non mi pare peraltro (uso un eufemismo) che diventare skipper sia uno dei suoi interessi primari; soffre un po’ di mal di mare; e in più ha l’aggravante della lingua (parla solo inglese con un forte accento tedesco e non capisce nulla di italiano) che lo pone in una sorta di quieto e rassegnato isolamento.
Tutt’altro discorso per quanto riguarda Consuelo, vera e propria spina dorsale della barca, che avevo inizialmente definito “donna d’acciaio”. In realtà avevo sbagliato: posso assicurarvi che è fatta di qualche lega ben più tosta, resistente e inossidabile. Una sessantenne che ogni mattina all’alba si infila una piccola muta, si tuffa e in un paio di ore di nuotata percorre tutta sola alcune miglia marine (leggi: parecchi km), giusto per il piacere di farlo e per tenersi in esercizio, avvistando murene e – sospetto – neutralizzando a mani nude feroci mostri acquatici. Veterinaria ed esperta di ogni tipo di animali, in realtà estende le sue passioni a una quantità di ambiti, soprattutto se fisicamente molto impegnativi. La vela in primo luogo (ha al suo attivo tra l’altro una traversata oceanica), ma anche il canottaggio (si allena tre o quattro volte la settimana), le immersioni subacquee, il triathlon, le moto di grossa cilindrata (suo abituale mezzo di locomozione). Quando mi ha detto che in passato aveva frequentato anche un corso da palombaro, mi è venuto un mezzo colpo. Tutta questa straordinaria competenza, però, non viene affatto sbandierata: al contrario, stare in barca con lei è come avere a che fare con una specie di Clint Eastwood prima maniera. Ti guarda in silenzio senza muovere un muscolo, dietro gli occhiali a specchio; ma qualunque azione sbagliata tu compia sulla barca (nel mio caso, quasi tutte) senti dentro di te echeggiare la voce del Pistolero Senza Nome, pacato ma inesorabile: “Amico, se fossi in te non lo farei”.
E dato che, ho scoperto, in barca esiste un solo modo di fare le cose giuste e infinite maniere per sbagliare, in questo momento mi comporto come le reclute a militare: faccio il minimo possibile e cerco di passare inosservata. Conto, in questo modo, di riuscire ad arrivare a fine vacanza senza che Clint decida di riservarmi il trattamento definitivo usato per il bestiame che non regge il ritmo e rallenta la carovana.
P.S. contatore odierno: semiannegamenti nel tentativo di portare una cima a terra a nuoto, 1; scivoloni su scogli, 37; craniate in cuccetta, 2 (sto migliorando)